Vedere questa nuova serie tv targata Shondaland (la cui produttrice è appunto la rinomata “sfornatrice” di longeve SerieTV : Shonda Rhimes), regalateci il giorno di Natale, è stata un’impresa ardua. Non per la resa della serie stessa, di cui non mi lamento affatto e ne converrò con voi a breve, ma della corsa “più pazza del mondo” che si viene a creare ogni qualvolta c’è una nuova uscita. La fretta di essere i primi “a commentare”, ci sta rovinando e facendo perdere il piacere di assaporare lentamente qualche nuova uscita che vada da una serie tv o una stagione successiva. Tralasciando il rischio di spoiler, difatti molti di noi hanno assunto l’agilità di Neo di Matrix nell’evitare questi proiettili, il vero problema in cui si va incorrendo riguarda la superficialità, dettata semplicemente per il poco tempo e per il gusto personale, di giudicare una serie senza davvero averla capita. Questo è dovuto ad un binge watching di uso spropositato. Io c’ero quando il 1 gennaio del 2017 usciva alle 00.01 la 4×01 di Sherlock, ma l’attendevo da 3 lunghi anni fatti di preghiere e bambole vudù con le sembianze di Moffat e Gatiss.
Questo sfogo di apertura non è una diretta critica a chi apprezza questo modo di vedere e godere delle Serie TV, d’altronde questa “immersione” è caratteristica anche dei lettori capaci di divorare 300 pagine in 24h e inoltre dipende dal nostro personale tempo a disposizione. Ma va, forse a colpire, chi critica una serie perché non è ciò che si aspetta anche se il suo biglietto da visita era chiaro fin dal primo secondo non del trailer, ma addirittura del teaser.
Quindi signori, aspettatevi da questo momento in poi un’analisi più pungente della penna di Lady Whistledown.
(l’evoluzione del gossip)
Bridgerton è una serie britannico-americana creata da Chris Van Dusen e prodotta, come sappiamo, da Shonda; tratta da una serie di romanzi d’amore di ambientazione storica dell’autrice statunitense, Julia Quinn. È una serie di romanzi naturalmente rosa, la cui trama, lineare e piacevolmente scontata offre una serie di azioni/funzioni ripetitive e confortevoli: l’incontro/scontro tra i due futuri amanti, l’amore, l’allontanamento, l’ostacolo, l’happy ending. E se si vuole dare pepe alla storia di solito subentra un antagonista, uomo o donna che sia, a farci penare il lieto fine.
La nuova serie tv mandata in onda su Netflix si è presentata esattamente com’è, non più e non meno di una Gossip Girl che incontra una Downton Abbey: è un’epoca regency alternativa e inclusiva, dove il re, Giorgio III d’Inghilterra, si è innamorato una donna di colore, elevando chi prima poteva solo aspirare a una vita di servitù, ad un ducato, un titolo, a sposare chi si desidera. Le tradizioni d’epoca sono nei modi, nei pensieri e negli abiti (più in linea con la moda napoleonica qui che nella più recente trasposizione austeniana di Orgoglio e Pregiudizio con la Knightley nel film del 2005), il tutto reso più pop e frizzante. Come se gli autori avessero dato sfogo alle fantasie degli uomini e delle donne di quel periodo. Non comprendo perché scomodare una Jane Austen dalla tomba, sottolineando come si rivolterebbe per la totale infedeltà storica, se la serie non punta a questa verosimiglianza. Anzi, questa interpretazione, che prende spunto da tantissimi altri classici, è un ampliamento di una mente così aperta, spiritosa e già moderna, com’era quella di una scrittrice che ha portato avanti una piccola rivoluzione e i cui suoi sentimenti sono ancora oggi intramontabili (e qui ne abbiamo già iniziato a parlare). Naturalmente i libri della Quinn sono delle solide fondamenta per erigere un estro che spero Dusen abbia preso dalla collaborazione con Shonda in Grey’s anatomy, Private practise e Scandal.
I primi segnali sono visibili nella scelta di un cast multietnico, assolutamente in linea con le politiche recenti di Hollywood, e assurdamente azzeccato. Quest’ultimo aggettivo non è riferito ai solidi pettorali di Simon Bassèt, duca di Hastings, ma alla capacità di inserire finalmente con naturalezza una nostra realtà storica dentro un’altra. La modernità della trasposizione, che pare allontanarsi nella narrazione sempre più dai libri, ma non tanto dalla suddivisione, un libro per ogni Bridgerton, è chiara soprattutto nel creare donne forti che nonostante siano figlie dei loro anni, non sono quasi mai sottomesse al loro status. Il potere, difatti, è in mano ad una regina di colore.
Combattere per la propria indipendenza e il proprio spazio in un mondo ancora patriarcale non deve essere solo rappresentato da una Eloise non incline al matrimonio, oserei dire più per paura che per scelta, che denigra i desideri altrui e preferisce dilettarsi in un’infantile caccia a Lady Whistledown che rappresenta la Donna da assurgere a modello, invece che concentrarsi su se stessa. La vera forza di queste donne si esprime nel vivere consapevolmente il loro presente.
Parto dalla protagonista, una delle migliori. Un diamante grezzo, elegante, brava in tutto, una figlia e perfetta moglie modello. In realtà Daphne (Phoebe Dynevor) è una bravissima, normale ragazza, che si impegna in ciò che fa, non senza porsi domande. L’ingresso in società è l’inizio di una vita da adulta che non parte con i crescenti sentimenti verso il duca, ma con la capacità di capire come tutte le donne, compresa lei, ricevano un’educazione inadeguata dalle loro stesse madri. Per quanto abbia apprezzato Violet, lady Bridgerton (Ruth Gemmell), una madre amorevole e comprensiva, che si rimbocca continuamente le mani per la sua numerosa famiglia, è lei la vera rappresentanza di quei romanzi austeniani che tanto ci piace citare. Lo sfogo di Daphne è più che lecito.
L’argomento sesso naturalmente era un tabù, e non meraviglia che una madre non desse alcun consiglio alle figlie una volte sposate. Naturalmente nella serie è un elemento presente e importante. Tuttavia molte critiche hanno proprio puntato il dito su questa libertà di parola e atteggiamento, dimenticandosi che le stesse scelte sono state fatte per altre serie tv tanto amate e in costume: Outlander (la cui prima notte di nozze è qui ricordata con Simon e Daphne). Anche in questo frangente, però, non mi meraviglio poiché anche una serie un po’ più recente come Sanditon di Andrew Davis, venne tacciata di libertinaggio per essersi adattata ad un giovane pubblico, che alle linee guida dell’autrice, che comunque sono state seguite.
L’amore, anche fisico, fa parte della nostra vita, e in questo caso, per come hanno sfruttato le scene, a parte forse quelle di Anthony, il maggiore dei Bridgerton, per gli altri sono ben contestualizzate e finalizzate sempre a quello scopo sopra accennato: adattare una nostra realtà ad una storicità diversa e, oserei dire, mostrarci le altre stanze delle dimore d’epoca regency dove non si ricamava solamente. D’altronde lady Bridgerton ha avuto 8 figli, non è “questa” una consuetudine solo moderna.
Dall’altro lato della strada ci sono altre donne che dominano con le loro storie e la loro concretezza la storia: la baronessa Featherington (Polly Walker) e Marina Thompson (Ruby Barker).
La prima, dipinta come una versione meno materna, ma con le stesse ambizioni di una comune signora Bennet, si dimostra una donna apparentemente frivola, sicuramente con un amore incondizionato per le stampe floreali, ma pratica e soprattutto impegnata nell’accasare le figlie Genoveffa e Anastasia (Philippa e Prudence), per proteggerle. La sua vera natura esce dopo la morte improvvisa di un marito silenzioso e inconcludente e il suo dialogo con Marina: bisogna essere forti, forse più forti di come è stata lei che ha accettato la sua condizione, ma ha perseguito nei suoi desideri di diventare madre e probabilmente baronessa. Queste parole fanno prendere un’importante decisione a Marina, un personaggio per cui a tratti abbiamo provato empatia, ma di cui non possiamo biasimare le scelte. Incinta e non sposata, venduta ad un parente del padre come pegno. Crede nell’amore, perde fiducia, cerca di “salvarsi” per salvare il bambino, molto poco nobilmente. Inconsapevolmente ha sempre cercato di proteggerlo. Preso atto che nella vita c’è amore, e che il suo George era pronto a donarlo al loro bambino, accetta un matrimonio dove forse non ci sarà mai.
La storia di Marina, contrapposta a quella di Daphne, non pesa per lo status diverso delle due giovani donne, ma per le decisioni prese in base alle situazioni in cui si sono trovate. Marina decide di fare non quello che la renderebbe felice, ma quello che ritiene giusto. Premettiamo sempre che per l’epoca, un matrimonio era sinonimo di una vita sicura, i sentimenti erano collaterali, se si era fortunati. Nonostante ciò entrambe le donne, sono partite dallo stesso punto, unirsi per amore. La più grande delle Bridgerton lo fa, scopre che la vita coniugale inizia dopo il matrimonio e fuori dalle lenzuola, dalle scale, dai prati sotto la pioggia, comprendendo e comunicando con un Simon incline alla chiacchiera come chiunque di prima mattina senza caffè. Daphne decide di restare.
Just because something is not perfect, does not make it any less worthy of love.
E ora passiamo ai Visconti, Duchi e Baroni. Il dramma di Simon (Regé-Jean Page) è chiaro e comprensibile, anche perché la serie usa un ritmo di narrazione rapido: pone il problema, risolve il problema possibilmente in 60 minuti. Questo ci permette di avere un’idea chiara sui personaggi e perciò ci limitiamo solo a fantasticare sulla trama. Inoltre i drammi non sono mai eccessivamente trascinati, vedesi il barone Featherington, sul lastrico, nei guai e morto nell’arco di 3-4 episodio.
Il passato del duca di Hastings è triste e semplicistico: il buon padre voleva un figlio perfetto, ma ahimè sei nato tu. Ok. Ancor più scontata è la scelta del figlio di punire il padre, punendo se stesso. Ok 2.0. Ringraziamo sempre la presenza di una moglie brillante e dai grandi sentimenti, che gli apre occhi e il cuore, facendolo ragionare: si sta privando di una gioia che in fin dei conti desidera.
Tutta la questione non posso/voglio avere figli, ha alzato un altro polverone a sfondo sessuale. Si allude ad una violenza, e si addita la mancanza di questa accusa perché vede una donna che “costringe” un uomo. Lungi da me prendere posizione soprattutto su una serie a sfondo pesantemente harmony, un po’ come piace a Shonda; ritengo però sia giusto vedere quello che è per come appunto è. Daphne non sa come si concepisce un bambino, deve chiedere chiarimenti alla sua più fidata dama, Simon, a parte qualche consiglio sull’auto darsi piacere, ben si guarda dall’andare oltre al dimostrare; ma le parole servono e in quell’atto definito “osceno” ce ne sono state, e nessuna ha gridato al tradimento, se non dopo Daphne, ma in riferimento alla fiducia, da parte di entrambi. Puntare sull’ignoranza di una donna per portare avanti la propria vita individuale, nonostante le promesse nuziali è la colpa di cui lo accusa la duchessa. Certo, prenderlo in contropiede (nel senso di stupirlo) non è leale, ma è stata una danza condotta da entrambi, non un assolo. Non sminuisco quello che la scena poteva essere e cosa è trasparito, ma l’ho letta per come è stata presentata.
Gli altri uomini protagonisti sono gli innumerevoli Bridgerton, dal maggiore Anthony e le sue vicende con la cantante d’opera Siena, Benedict e l’insinuazioni di altre preferenze, Colin, il più veloce a fare proposte di matrimonio a sconosciute fanciulle come vuole l’epoca. Nonché interesse amoroso di Penelope. Nonostante la prima stagione, di soli 8 episodi di circa 60 minuti ciascuna, è incentrata sulle vicende amorose della quarta figlia dei Bridgerton con il duca di Hastings, le presentazioni a tutti gli altri membri non sono venute meno e ci hanno preparate al prossimo protagonista: Anthony (Jonathan Bailey), libero dalla sua palla al piede Siena, che onestamente con il suo discorso finale sul “tu vuoi cambiarmi e non mi accetti per come sono” si è dimostrata l’arrivista che è, scendendo un gradino più in basso rispetto addirittura alla baronessa Featherington.
Capisco il suo punto di vista, ma si tratta anche di coraggio di amare, amare anche alla luce del sole, e poi prima di lei Elisa di Rivombrosa ci ha mostrato le difficoltà di provenire da umili condizioni e affiancarsi ad un conte. Per gli altri due Bridgerton, con la nuova sorella Francesca sbucata dal nulla, abbiamo solo dei fugaci cenni.
Nonostante ciò avrete notato come ancora non abbia parlato dell’aspetto più singolare di questa serie, una voce narrante (Julie Andrews), che conosce i segreti di molti dell’alta società, li scrive su un’irriverente rivista sotto lo pseudonimo di Lady Whistledown e punzecchia direttamente la regina, che sente come non solo l’amore della sua vita le stia scivolando dalle mani, ma anche la corona di donna più importante della nazione a causa di questa voce pettegola. Contrariamente a Gossip girl, questa voce non lo fa per emergere, colpendo, anche vigliaccamente, persone a lei vicina per un proprio tornaconto (beh, a parte Marina).
Non ci è dato sapere ancora il motivo, ma nell’esatto momento in cui scopriamo che è Penelope Featherington (Nicola Coughlan), è giusto immaginarci uno scopo più sensato rispetto a quello disperato di Dan. Penelope è tra i miei personaggi preferiti, ha tutte le qualità elencate da Daphne e anche qualche ambizione in più. Certo, la sua sfortuna vuole che deve essere intrappolata in catarifrangenti vestiti gialli, ma è una donna arguta che si sta spianando da sola una nuova interessante strada.
Mi aspettavo fosse lei? Ni. Ho pensato che, oltre al fatto che ci sono dei libri guida, ma c’erano anche per Gossip girl, Shonda non avrebbe mai permesso che la scelta ricadesse su un personaggio traballante e spesso di dubbia morale, il buono/povero che in realtà cova grande invidia. Nonostante Dusen scopre tutte le carte in tavola per i personaggi e lo svolgimento della storia, su lady Whistledown ci lascia divertire e quindi a momenti alterni sospettiamo di Lady Danbury, madrina di questo amore tra Simon e Daphne, la modista e a volte la Regina Carlotta stessa. E personalmente, ma solo all’inizio, di Penelope, molto presente, con tutte le qualità per fare quello che fa.
Bridgerton è vivace, piacevole e ben realizzato. Difficile distrarsi e spesso per gli eccentrici costumi (oltre 7500 con tessuti e tecniche contemporanee) che parlano anche al posto dei loro personaggi, come i colori che caratterizzano le scene, più audaci, arricchiti da accessori sontuosi. Per esempio per Daphne numerosi sono i richiami ad un Guerra e Pace con Audrey Hepburn.
Le musiche sono sul pezzo e calzano a pennello con questa rievocazione Regency. Dalle indimenticabili scene di ballo con Strange di LP e Wildest Dreams di Taylor Swift ad altre melodie ben conosciute, Thank u, next della giovane cantante pop Ariana Grande e Bad Guy di Billie Eilish. Tutte cover accompagnate da un quartetto d’archi (Vitamin Strings Quartet) che rende omaggio alla musica pop e rock. La recitazione femminile sovrasta quella maschile, forse per esperienza, d’altronde Page è tanto bello, quanto mono espressione. Molte le storyline intrecciate sapientemente che vanno dall’alta società ai borghi di periferia di Londra dove ci si diletta con incontri di pugilato e scommesse, incorniciati da una Bath (spacciata logicamente per Londra), in palette con gli abiti e i sentimenti effervescenti dei protagonisti. Gli omaggi a Jane Austen sono naturalmente innumerevoli.
Bridgerton sa come allietarci e forse non ha mai voluto stupirci, se no perché sappiamo già chi sia lady Whistledown?
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