Serie di dieci episodi, Hunters parte bene già solo per la garanzia suprema di Al Pacino – che sfoggia un eccellente accento tedesco-ebraico – perché dove c’è lui c’è qualità. Se il cast vanta personalità come Pacino e un Logan Lerman che sorprende in positivo, tanto c’è da dire anche riguardo agli altri protagonisti. Perché la serie presenta una buona caratterizzazione, eccome se sì! A cominciare da un volto per molti familiare, il Ted Mosby di How I met your mother – Josh Radnor – che finalmente torno a vedere in un ruolo, uno vero (perché devo ammettere, non avevo idea di che fine avesse fatto), un personaggio simpatico e sbarazzino, leggero sì, ma come per tutti gli altri personaggi un vero e proprio pezzo indispensabile del puzzle di personalità che compone la squadra di cacciatori di nazisti. Ci sono poi Roxy, abilissima nel combattimento corpo a corpo; Joe, veterano della guerra in Vietnam, un mago con le armi; una suora, sorella Harriet (o almeno questo è il suo travestimento) e i coniugi Markowitz, Murray e Mindy, sopravvissuti alla violenza dei campi di concentramento, abilissimi con l’elettronica.

Altrettanto interessanti sono gli antagonisti. Tanto Dylan Baker aka Biff Simpson quanto Greg Austin aka Travis Leich, personaggio che ricorda molto, per freddezza, alienazione e implacabilità Javier Bardem in Non è un paese per vecchi.
Tra i protagonisti c’è anche un detective dell’FBI, una donna con una personalità forte, pronta a sfondare tutte le porte chiuse che trova. Il suo personaggio è chiaramente interessante, non solo per la potenza caratteriale ma anche per la funzione all’interno della serie. Si mette infatti alla ricerca della squadra di auto-giustizieri diventando cacciatrice essa stessa dei cacciatori. Intenzionata a scoprire chi si cela dietro i vari omicidi – tanto quelli degli Hunters quanto quelli dei nazisti – scopre entrambe le verità, inserendosi in un gioco molto più pericoloso di quanto crede.
Nonostante la lunghezza, i primi cinque episodi scorrono bene grazie anche a delle trovate molto interessanti che muovono il ritmo della narrazione. Ma andiamo con ordine: la sigla, perché la sigla è il momento in cui le tende del palcoscenico iniziano ad aprirsi e quello che intravediamo dietro dovrebbe cominciare a catturare la nostra attenzione. Non si tratta di una sigla high budget, anzi, quello che vediamo altro non è che una scacchiera con sopra dei pedoni, ciascuno raffigurante protagonisti e antagonisti, gli uni contrapposti agli altri. Un vero e proprio scontro tra la potenza bianca, la rivincita e vendetta degli oppressi, e la forza nera, i giocatori oscuri, i nuovi nazisti.
E l’idea che c’è dietro questa sigla-a-scacchi non è da sottovalutare: in primis perché gli scacchi sono un gioco fortemente “ebraico” (nel Medioevo, periodo in cui il gioco si diffonde ampiamente, si registrano ben 4 trattati sugli scacchi scritti in caratteri ebraici), infatti entrambi i protagonisti – Pacino e Lerman – sono abili giocatori; si tratta di un gioco di astuzia e calcolo, due elementi su cui la serie stessa si sostiene; inoltre, nella prima puntata ci viene mostrata una scena molto cruda che ha proprio per immagine quella della scacchiera. Solo che non si tratta di una partita seduti comodamente su delle poltroncine di pelle giocando ad armi pari, bensì di una partita reale in cui le pedine sono gli ebrei nei campi di concentramento, obbligati ad uccidersi tra loro al suono dei comandi e delle mosse dettate loro dai nazisti. Una scena davvero forte, un inizio col botto.

La scena in questione ha subìto diverse critiche, in primis dall’associazione Auschwitz Memorial che ha accusato la serie (il cui produttore esecutivo è Jordan Peele – conosciuto per Get Out) di aver infangato la memoria dei terribili fatti storici avvenuti, inventando qualcosa che non è mai davvero successo. A queste accuse il produttore David Wells ha risposto che, nonostante gli estremi atti di sadismo perpetrati dai nazisti siano qualcosa di realmente documentato – tra cui proprio giochi crudeli cui i prigionieri erano obbligati a partecipare loro malgrado – non ha voluto rappresentare fatti specifici realmente accaduti.
Non è però solo quella dei campi di concentramento la verità che porta avanti la serie. Sul finire del quinto episodio scopriamo infatti una scomoda realtà: questi nazisti sopravvissuti non hanno fatto carte false per poter entrare in America e rifarsi una vita nelle caratteristiche villette a schiera, bensì sono stati letteralmente invitati dal paese stesso. Questo per far sì che le grandi menti del Reich non finissero in mano ai Russi. Alcuni di questi nazisti non solo sono riusciti senza batter ciglio a rifarsi una vita, buttandosi alle spalle il loro sporco passato, ma sono riusciti persino ad ottenere ruoli importanti (si parla di Nasa, tra le altre cose, mica cacchi eh!)
La serie è ambientata nell’America del 1977. Per gli amanti di quegli anni è davvero una meraviglia: pantaloni a zampa di elefante, sale giochi, riferimenti a qualche film e fumetto non proprio sconosciuti (Star Wars e Batman tra le altre cose), jeans a profusione, movenze dance, incredibili basettoni. Il tutto, e qui torno alle trovate interessanti, accompagnato da momenti molto pulp come piccoli sketch che spezzano il ritmo dell’episodio. A proposito di pulp, piccola menzione per le evidenti riprese di film tarantiniani come Bastardi senza gloria e Django. Lo stile della serie si presenta come l’unione e la sovrapposizione di tante idee e volontà: da momenti d’azione si passa ad altri più divertenti, da contesti fumettistici e/o pubblicitari ci si sposta su contesti molto più realistici e crudi.
In attesa di vedere la seconda metà della serie posso dire solo una cosa: penso che la serie possa piacere o non piacere, ma una cosa è certa, non si può non riconoscerne l’ambizione e la singolarità.
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