Telefilm

Parliamone | Dracula – L’ Impossibilità di Raggiungere Se Stessi

I’m undead, I’m not unreasonable.

Tra la versione nostrana del romanzo di Bram Stoker, fatta rivivere recentemente nei teatri per mano di Sergio Rubini e Luigi Lo Cascio e l’ultima trasposizione seriale (Netflix) nel formato dei tre mini film, già collaudata dai compagni di avventure telefilmiche Gatiss e Moffat, il nome del più famoso vampiro ritorna a riecheggiare direttamente dalla sua tomba. Ispirato alla figura del principe di Valacchia, Vlad III, Dracula è un personaggio senza tempo, soggetto di mille versioni dalle più riuscite, alle molte più numerose dimenticabili.

Nonostante riprendere le sue vicende infonda una grande sicurezza, perché un pubblico curioso o fedele è assicurato, intorno al film di Coppola si è creata una fortezza che rende questa versione del vampiro intoccabile. Sembra un mito irraggiungibile e qualunque versione non è mai all’altezza neppure quella più fedele al romanzo. Le aspettative sono sempre troppo alte, ma cosa più sorprendente è che si predilige continuamente la stessa storia, forse perché mai stanchi di riascoltarla.

Il duo storico Gatiss e Moffat, abbandonati i cappotti dal bavero alzato di Sherlock Holmes, si è impegnato in quest’altro progetto che tuttavia è riuscito in parte. Ironico come la loro rappresentazione di Dracula sia più fedele al romanzo di quanto lo sia la versione di Oldman/Coppola del leggendario film del 1992. Il conte non è un gentiluomo dall’animo romantico, un dandy londinese, tutta la vicenda del suo corteggiamento di Mina, reincarnazione della donna amata, è una scelta di Coppola che ha voluto inserire nel film quello che non c’è nel libro, un pizzico di umanità scaturito dal sentimento che smuove tutto: l’amore. Mossa vincente che ha ottenuto il consenso in toto di un vasto pubblico, i fedeli fan di Stoker, gli amanti dello horror e coloro che lo amano infarcito di romance. Naturalmente il successo è dipeso anche da un intelligente e onirica scelta di regia, che probabilmente non ha mai abbandonato quella visione impressionista che voleva dare al film, e che ha rinnovato Il genere vampiresco.

Il nuovo Dracula targato Netflix, appoggiato dalla grande performance di Claes Bang, è mostruoso, macabro, violento. Profondo nello sguardo, con un sorriso coinvolgente, quasi caricaturiale il suo aspetto che con l’inquadratura giusta ricorda le prime apparizioni televisive di Dracula degli anni ‘30. Se questi continui rimandi al passato vogliono legarlo appunto ad un tempo lontano, e non meglio definito, Bang continua per tutte e tre le puntate ad apparire come un “uomo” del futuro. Non è la mancanza di flashback o dei racconti sul suo passato a farcelo apparire così, ma il suo modo di porsi sulla scena. È un Dracula moderno e lo si denota nella sua a volte ingombrante ironia, come nella perenne strafottenza di chi conosce il mondo, forse anche troppo. Poteva essere l’arma vincente del duo di autori, che già avevano riportato in auge uno dei personaggi cartacei più sfruttati, Sherlock, ma questa nuova impostazione di Dracula si è persa in una trama che nel terzo episodio è venuta a mancare. Non è la scelta di passare al presente-futuro il problema, ma il non aver saputo adattare il personaggio principale, mostrandoci cosa ci fosse dietro quei canini prima di arrivare alla sua quasi inaspettata dipartita.

Effettivamente la grandiosità di questo personaggio è stata dimostrata principalmente dalle vicende. Il primo episodio ricalca fedelmente i diari di Jonathan Harker, il suo lento decadimento, e la crescente pazzia che aumenta giorno dopo giorno, chiuso in un labirinto di mura. L’ingresso di Dracula non è trionfale, la nostra attenzione è tutta rivolta al narratore Jonny dagli occhi blu che in questa serie si fonde col personaggio di Renfield, paziente del dottor Seward, assenti in questa trasposizione nei loro originali ruoli, ma ripresi in altre vesti nell’episodio finale. Il convento e il manicomio si confondono, e attraverso un lunghissimo flashback, interrotto solo dagli interventi incalzanti della suora Van Helsing, arriviamo alla scoperta che Jonathan è morto e che la storia è solo all’inizio. La nemesi di Dracula è sorella Agatha Van Helsing, scelta divertente, ma non nuova. Abbiamo già avuto dei Van Helsing in gonnella, e questa è servita a bilanciare una storia tutta al maschile che sapeva fin dall’inizio che di Mina non ne avremmo sentito nemmeno più il nome. Suor Agatha è esattamente la versione maschile di Dracula, assetata di conoscenza e pronta a gustare tutte le novità. Irriverente fino all’insopportabile, caparbia e a modo suo spaventosa. Una scelta, quella di affidare questo ruolo a Dolly Wellis, ben studiata, ma realizzata in maniera più rozza e meno efficace del Dracula di Bang. Nonostante ciò nell’ultimo episodio la situazione si ribalta perché è chiaro che al conte manca qualcosa, la consapevolezza di “esistere” e perciò se esiste un “essere” può esserci anche un “non essere”. Dracula sembra senza uno scopo vero, agisce e basta. Non disprezza la morte, è sua amica, ma un’amica con cui convive, ma non comunica per davvero. È questa consapevolezza che manca nel conte, un sentimento sicuramente più umano, mortale in quanto fin dalla nascita siamo consapevoli che ci sarà una fine. La sua non è paura di morire, ma di sapere che può farlo. Riflessione bellissima, ma letteralmente buttata negli ultimi 20 minuti finali; impossibile un’evoluzione del personaggio, e forse mai cercata, ma il contrasto tra il mostro che accetta di sopravvivere e quello che sceglie di morire, è troppo forte e il messaggio risulta poco chiaro.

Da una serie di continue emozioni, che si alternano al più comune brivido di terrore che deve incutere una visione horror, passiamo all’episodio del viaggio in mare verso Londra. Il primo episodio si concentra sulla nostalgia, sul richiamare al pubblico quanto già conosciamo con chiari riferimenti, e si sviluppa su tre strade; il flashback del viaggio in transilvania di Harker e la scoperta di cosa si nasconda nel castello, regalandoci alcune tra le più memorabili scene, le tombe dei non morti, il bambino vampiro e le spose di Dracula; il racconto fatto in prima persona da Jonathan in convento, la presenza di una Mina sotto mentite spoglie, e l’insinuarsi nel pubblico, anche quello ignorante sul tema, che qualcosa nell’avvocato non vada per poi arrivare all’atto finale: Dracula si infiltra nel convento regalandoci momenti di pura ironia, misti a terrore. È in queste scene che viene descritto il nuovo Dracula di Moffat e Gatiss, non ha niente dell’immagine fine e spesso vittoriana a cui siamo abituati: elegante, ma letale. Bang è feroce, disumano, a tratti trash e molto sensuale.

La puntata numero due continua su questa linea e meglio ci fa comprendere il suo non limite, trasformando il viaggio in mare in una sorta di Assassinio sull’Oriente express che affonda nel sangue. Nuovo scenario, nuovi personaggi, nuovi sapori per Dracula e nuovo narratore: suor Agatha. Anche in questa nuova vicenda Il conte non si smentisce, si mostra ancora più ostinato di prima nel perseguire il suo intento, ma tuttavia, riflettendoci su, alcune questioni vengono lasciate in sospeso senza più riprenderle, come il desiderio di procreare. Un giallo, di cui conosciamo già l’assassino, nell’horror che raggiunge il suo culmine nello scontro finale tra suor Agatha e Dracula stesso, il tutto avvolto in un’atmosfera che sa quasi di piratesco. Divertente e coinvolgente, una puntata che inserisce Dracula in un contesto ristretto, una nave, il Demeter, a largo, ma brulicante di molti personaggi che interagiscono direttamente con lui: da chi è sempre rimasta affascinata dal mito del conte (quasi ricordandoci quello di Oldman), la duchessa Valeria, allo scettico compagno di lord Ruthven, che abbraccia il diabolico fascino di Dracula, alla classica donzella che cede al conte fino al dottore che conosce il pericolo. Tante realtà risucchiate dalla sete del conte Dracula.

Dracula è sublime nel suo habitat naturale, il sangue. È un’opera d’arte quando squarta, ipnotizza e si impossessa dei corpi altrui sgusciando fuori in tutta la sua nudità. Nella forma di animale, mostro è caratterizzato magnificamente, tuttavia al di là di questa interpretazione sembra spaesato. Questa sensazione arriva anche al pubblico che non capisce se sia una scelta voluta oppure no. Se l’apice della storia doveva essere la comprensione da parte del conte di accettare la morte, questo dubbio poteva essere insinuato molto tempo prima, tra l’irruzione in convento e il viaggio verso Londra. Non è la scelta di morire, scelta consapevole per giunta, a chiudere poco dignitosamente questa serie, ma la non trama del terzo episodio.

Forse si voleva creare un contrasto tra Dracula e Lucy, scelta come sua sposa. Una giovane donna che si fa beffe della vita come della morte, che non sembra avere paura di nulla. Specchio di un “mostro”, Dracula, che non è davvero così e messaggio più vicino a quello rappresentato da Rubini a teatro: c’è un mostro in ognuno di noi che ci succhia via la vita.

Nel terzo episodio tutto scorre senza soffermarsi a dare una qualche spiegazione. È il riflesso di come Dracula viva il suo tempo, o forse no. Agatha è Zoe, il dottor Seward un medico che non ha alcun peso nella storia, Renfield un avvocato, ma tutto è gettato sulla scena senza linee guida. Il problema non è il personaggio del conte Dracula, qua riuscito, a differenza delle versioni più recenti e ingentilite come quella di Penny Dreadfull o di Rhys Meyers, ma che non abbia una vera storia da raccontare soprattutto quando finalmente gli viene affidato il testimone di narratore indiscusso dopo Jonathan e suor Agatha.

Questa serie è fedele al romanzo di Bram Stoker, con dialoghi moderni e divertenti, mischia più stili e rimandi a opere passate, la fotografia è accurata e incornicia perfettamente il suo protagonista, tuttavia finita la visione ci lascia con l’amaro in bocca, perché avremmo voluto che il conte ci lasciasse con lo stesso impatto con cui è entrato e non come una persona qualunque.

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