In onda su Netflix dal 6 dicembre, Virgin River è stata già rinnovata per una seconda stagione.
Basata sui romanzi di Robyn Carr, scrittrice di più di 50 romanzi e infermiera americana, Virgin River tratta le vicende dell’infermiera e ostetrica di Los Angeles, Melinda Monroe, che in seguito a delle personali perdite, decide di trasferirsi nella verdeggiante e pacifica ominima località della California.
Se la storia vi sembra già nota, sicuramente agli ex adolescenti del 2005 sarà venuto in mente il teen drama ambientato in Colorado, Everwood (il posto più bello che io abbia mai visto, cit.), oppure il più recente Hart of Dixie con la nota Rachel Bilson, col quale divide Tim Matheson sempre nelle vesti del dottore guasta feste. Il paragone non solo è spontaneo, ma proprio dovuto, perché sembra una prerogativa dei medici, o di chi lavora nell’ambito, cercare se stessi tra la natura e lontano dalla caotica vita di città. Le premesse sono ingenue e già viste e riviste. Le storie sono semplici, ma oneste.
Come molti dei protagonisti delle serie citate precedentemente, anche Melinda fa il medesimo errore: fuggire dal proprio presente e/o passato, cercando rifugio in un posto apparentemente privo di problemi, dove sia “facile” ricominciare a vivere. Naturalmente tutto il mondo è paese, e anche la gente di Virgin River ha i suoi problemi irrisolti; dal matrimonio ferito, e mai veramente chiuso tra Doc, scontroso medico del posto, e Hope, sindaco impiccione della città, a Jack, barista ed ex marine, dallo sguardo buono, ma con troppi problemi in sospeso, senza contare la presenza misteriosa di Paige, venditrice ambulante di dolci che si guarda intorno sempre furtivamente.
La serie di Sue Tenney, già produttrice di Good Witch e 7th Heaven, è perfetta per gli amanti del genere drammatico sentimentale. Una tipologia che difficilmente riusciamo ancora a vedere sui nostri schermi, ma che non consiglierei facilmente.
Il cast presenta molti volti noti a partire dalla protagonista, Alexandra Breckenridge, Sophie di This is us, a Martin Henderson, breve interesse amoroso di Meredith Grey, il dottor Riggs; mentre la prima mostra un personaggio abbastanza a fuoco, che riesce a presentarsi anche con i molteplici flashback che interrempono il suo percorso di metabolizzazzione nel presente, il secondo è perennemente spaesato; tanto si mostra sicuro nel mettere a suo agio Mel, tanto è assente nella sua vita del presente, risultando molto ingenuo dati i suoi trascorsi. Interpretazione riuscita o no, sicuramente è chiaro dove la serie voglia andare a parare e per quanto questa prevedibilità non elevi Virgin River a serie più originale di Netflix, ha conquistato una fetta di pubblico. È chiaro che la vita di gran parte dei cittadini di Virgin River si intreccerà con quella di Melinda e che quindi verremo a conoscenza dei loro passati, per la maggioranza pieni di ferite mai rimarginate, tuttavia è irrealistico come anche in un piccolo centro che forse non conta poi così tante anime ci siano casi particolari da gestire nella clinica di Doc o che ancora una volta grandi segreti si celino tra i cottage tipici di questi posti. Non che sia solo una prerogativa dei quartieri/città più alla moda o grandi come Wisteria Lane narrare drammi che vadano oltre la credibilità, tuttavia la storia che Virgin River ci vuole proporre è straripante di clichè, riproposti senza la minima sfumatura o, oserei dire, sforzo. Tutti coloro che scombussolano la quiete di Virgin River o non accettano le “leggi” della cittadina diventano oggetto di occhiatacce ed esclusione dalle briscole settimanali. Però qui non abbiamo la tagliente ironia delle Gilmore a rendere tutto più frizzante, ma solo una giovane donna di Los Angeles che ignora, con intelligenza aggiungerei, comportamenti davvero bigotti. Ancora una volta questo ambiente bucolico avrà qualcosa da imparare dall’esperienza della nuova arrivata come qualcosa da insegnarle, tipo l’amore di una famiglia acquisita. Di nuovo lo stesso spaccato tra due stili di vita diversi.
Virgin River si dimostra l’ennesima serie che vuole dimostrarci come la superficie spesso inganni e si creda e vuol far credere soprattutto agli altri che tutto vada bene, quando in realtà non è così. Non è il messaggio ad essere sbagliato, è fondamentale trasmettere, soprattutto oggi con una società più fragile, che aver paura è normale e che è fondamentale cercare la serenità dentro se stessi prima di tutto, ma l’idea di riportarlo con una storia che abbiamo tutti già visto, sì. Sicuramente ci sono spunti interessanti, ma trasportare una serie di libri, più di una ventina per la precisione, in una serie che ripropone gli stessi soggetti, senza contare le stesse inquadrature e la medesima fotografia, apparendo un copia e incolla del passato, non è una mossa vincete.
Non sono sicura che la bellissima Alexandra con la sua sensibile interpretazione di una donna davvero a pezzi, potrà portare avanti una storia che al momento ha mostrato più interessante i suoi flashback con Daniel Gillies (Elijah di The Vampire Diares e The Originals) e la parallela storyline di Hope, distrutta da un amore che doveva essere la sua ancora di salvezza. L’onestà e forza dei suoi personaggi e dei loro sentimenti non potrà cancellare la prevedibilità di una serie che non ha affatto il sapore di qualcosa di nuovo e non rassicura neppure perchè è qualcosa che già conosciamo. È un ibrido ben realizzato, che tuttavia ha convinto Netflix con la sua prevedibilità a rinnovarla per una seconda stagione, lasciando a casa serie con più potenzialità.
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