Finale dolce amaro per questa sesta stagione, che ci lascia con una puntata che, più che essere conclusiva, sembra finalizzata a trasportarci verso la settima.


Solitamente, quando scrivo una recensione guardo l’episodio due volte, e durante la seconda visione prendo appunti, segnandomi le cose importanti e quelle di cui voglio parlare. Oggi, invece, andrò di getto, quindi perdonatemi se dimenticherò qualcosa. Voglio lasciarmi libera di esprimere il mio pensiero su questo season finale senza vincoli autoimposti. La sesta stagione pare aver creato una spaccatura nel fandom, c’è chi l’ha odiata e chi l’ha amata, e la stessa cosa è successa per quest’ultimo episodio. Sapete già che io la ritengo una delle migliori, e ho apprezzato anche la puntata, nonostante abbia creato più domande di quante già non ne avessimo.

Clarke, come sempre, si conferma un personaggio con un’immensa forza d’animo (avrei voluto scrivere “con dei grandissimi -parola che fa rima con taglioni-” ma onestamente non so se mi è permesso scrivere parolacce.) Mette sempre il bene delle persone che ama prima del suo, e per quanto Abby non mi sia mai piaciuta è stata una sofferenza vederla cercare indizi sulla possibile sopravvivenza della madre nella coscienza di Simone, e ancora peggio guardarla espellere quel corpo estraneo e familiare. Clarke ha perso tutto ciò che aveva, tutto quel nucleo originario con cui era cresciuta -Jake, Abby, Wells, persino Jaha-, e ciò che le resta è la famiglia che si è costruita. Ho apprezzato tantissimo l’abbraccio con Raven, mi hanno dato l’idea di due sorelle accomunate dallo stesso dolore e in un certo senso è proprio così: hanno entrambe perso una figura genitoriale in un modo orribile, senza nemmeno poterle dire addio. L’abbraccio con Bellamy, invece, mi ha spezzato il cuore. Clarke ci prova, ci ha sempre provato, ma per “fare meglio” è inevitabilmente costretta a sacrificare qualcuno e il prezzo si alza ogni volta di più. Per quanto ancora potrà sopportare quel peso, nonostante Bellamy sia lì a condividerlo?



Non ho particolarmente apprezzato che Madi si sia risvegliata in quel modo, è stato forse troppo veloce e affrettato, ma quello su cui Sheidheda ha fatto presa nella mente della ragazzina è il desiderio di vendetta, quindi, nel momento in cui lei realizza che quella è Clarke, avviene una sorta di epifania che mette Gaia davanti a una decisione: Madi o la Fiamma? E con la distruzione di quest’ultima vediamo chiudersi il capitolo dei Comandanti, portato avanti da tanto tempo e forse mai davvero approfondito del tutto. Tra le tante domande dell’episodio, una delle più importanti riguarda proprio Sheidheda. Che fine ha fatto? Personalmente, considerando anche che Russell non si è più visto una volta tornati su Sanctum, credo che siano in qualche modo riusciti a portare avanti l’alleanza, scaricando il Comandante da un’altra parte, forse proprio nell’anomalia, rendendo così Sheidheda quel “lui” di cui parla Hope nel finale dell’episodio, prima di pugnalare Octavia e farla svanire -letteralmente- in una nuvola di fumo.

Ho adorato come si sia ristabilito il legame tra i fratelli Blake, finalmente di nuovo complici, amici, consapevoli di essere l’uno responsabilità dell’altra non per un vecchio giuramento ma in virtù dell’affetto che li lega, e non vedo l’ora di vedere cosa Octavia (do per scontato che sia viva), Diyoza e l’anomalia avranno in serbo per noi nella prossima stagione.

Come sempre io sono di parte, e sapevo che Murphy sarebbe tornato sulla retta via. Nonostante Richard sia un grande attore, però, Murphy non lo è e non riesce a interpretare il ruolo di Prime assegnatogli da Russell, mettendo così in pericolo sia se stesso che Gabriel. Esilarante il momento il cui l’altro ragazzo lo bacia, dando un lieve respiro a una puntata carica di tensione. In generale, tutte le scene con Murphy e Emori mi sono piaciute tantissimo e ho davvero avuto paura che lui ci lasciasse in questo episodio.
Nonostante serva la settima stagione per far riemergere Diyoza, in questo episodio abbiamo recuperato un assente recidivo: Jordan. A conti fatti, dal suo personaggio mi aspettavo molto di più. Probabilmente perché facevo confronti con Monty, o forse perché io non so cosa voglia dire crescere con la sola compagnia dei genitori senza avere un amico o una vita normale, idealizzando eroi che poi si rivelano pieni di difetti e debolezze, ma di certo non mi aspettavo che si invaghisse di una ragazza e che quella diventasse la sua storyline principale, sconnessa dalle altre e a tratti abbastanza inutile. Tuttavia, io capisco il suo discorso e in parte sono costretta a dargli ragione. Gli abitanti di Sanctum vivevano in pace prima del loro arrivo. I cambiamenti che hanno portato hanno fatto sì che un sistema centenario e perfettamente funzionante, seppur senza ombra di dubbio deprecabile, collassasse su se stesso, inglobando tutti i suoi abitanti e portando alla morte quasi tutti i Prime. Dove vanno, i cento portano morte. È anche vero, però, che è stato Russell a dare il via a tutto, decidendo egoisticamente di uccidere Clarke per riportare indietro Josephine.

Quello che Jordan non capisce è che la colpa non è dei Terrestri e non è degli abitanti di Sanctum: la colpa è dell’animo umano, dei ricordi, del dolore, di tutti quei sentimenti sbagliati, cattivi ma necessari perché noi possiamo trovare davvero la forza di contrastarli e fare meglio.
Non vi lascerò nessun bonus, questa volta, ma vi saluto con la promessa di ritrovarci qui, l’anno prossimo, per la settima stagione e per dire addio a questi meravigliosi personaggi, così sbagliati e così umani.
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