“Nell’eternità dove il tempo non esiste niente può crescere, niente può divenire, niente cambia. Quindi la morte ha creato il tempo per far crescere le cose che lei ucciderà e ognuno poi rinasce ma sempre nella stessa vita in cui si è vissuti in precedenza. Nessuno è in grado di ricordare la propria vita, nessuno può cambiare la propria vita e questo è il terribile segreto della vita stessa. Siamo in trappola come in un incubo dal quale continuiamo a svegliarci”
Mai come in questo momento le parole del grande Rust Cohle mi sono parse così dannatamente reali. Certo, la prima stagione è passata da ben cinque anni e True Detective è una serie antologica, quindi ogni stagione ha una trama e dei personaggi a se stanti. Ciò non significa però che le storie non possano essere in un certo modo collegate. Finalmente è tornato sui nostri schermi True Detective e, diamine, lo ha fatto in grande stile! Centrale il concetto di Tempo. Continuamente evocato da Rust ( interpretato da un magnifico Matthew McConaughey), che era solito incantarci con le sue suadenti parole nella prima stagione, il Tempo è qui una presenza ossessionante, una forza che crea e distrugge i ricordi del protagonista. I fan saranno sicuramente entusiasti di questo ritorno alle origini. La seconda stagione, difatti, aveva uno stile e un’impostazione del tutto diverse dalla prima e per questo motivo ha deluso molto il pubblico. Personalmente non mi era dispiaciuta: anzi, sommando le ottime interpretazioni del cast ( soprattutto Colin Farrell, uno degli attori più sottovalutati del secondo millennio), una buona regia e alcune scene davvero mozzafiato ( la sparatoria… chi se la dimentica?) viene fuori un buon prodotto, che aveva però un nome troppo importante sulle spalle, dato che la prima stagione è considerata dalla maggior parte dei critici uno dei migliori show televisivi di sempre. Nic Pizzolatto ha quindi voluto compiere un passo indietro, senza però scrivere una mera copia della prima stagione. I primi episodi di questa nuova era mi hanno letteralmente rapita. Sono pronta a dire che ci troviamo di fronte ad una grande opera, forse ancora più potente e importante di quella che fu nel 2014. Cerchiamo però di procedere con ordine, data l’ardua impresa di analizzare ben tre episodi!
Per quanto riguarda il primo episodio, “The Great War and Modern Memory”, posso subito affermare che si tratta di una premiere esplosiva. La trama si dipana su tre piani temporali diversi, la cui costante ( per dirla alla Lost ) è il detective Wayne Hays, interpretato dal premio Oscar Mahershala Ali. L’uomo, malato nel presente di demenza senile, viene intervistato ad un programma televisivo di cronaca nera, per parlare del caso Purcell. Nel 1980, difatti, Hays e il suo collega Roland West ( Stephen Dorff ) si erano trovati ad indagare su un caso molto delicato: nella profonda provincia dell’Arkansas, erano spariti due bambini, fratello e sorella, usciti insieme in bicicletta e mai ritornati a casa. Il caso viene riesaminato nel 1990, quando Hays, ritiratosi dalla polizia, viene interrogato da alcuni suoi colleghi su ciò che accadde dieci anni prima. Tre linee temporali diverse, dunque. Si nota subito la somiglianza con la struttura della prima stagione ( anche se in quel caso le linee erano due), ma qui pare tutto più complicato ed intricato. Sì, perché i diversi piani vanno spesso ad intrecciarsi, a sovrapporsi non seguendo un ordine preciso. Non dimentichiamoci che il protagonista è infatti malato di demenza, e gli eventi di quelle due tappe fondamentali della sua vita, 1980 e 1990, si ricompongono pian piano come pezzi di un mosaico troppo difficile da completare. I ricordi sono confusi, frammentati e tutto ciò è frustrante, perché la memoria rappresenta in qualche modo la nostra identità. Da questo punto di vista, sia la scrittura dello show sia l’interpretazione di Mahershala Ali ( di cui parlerò meglio in seguito ) rappresentano alla perfezione la frustrazione del protagonista, che sta a poco a poco perdendo se stesso. Riecheggiano anche le suadenti parole di Rust sul Tempo, che tra l’altro riprendono esplicitamente la filosofia di Nietzsche: Tempo come Eterno Ritorno, un ciclo che ci intrappola, da cui non riusciamo ad uscire, in cui gli eventi si ripetono.
Nel 1980, come dicevo, due bambini scompaiono. Hays e West scoprono subito che i genitori sono tutt’altro che uniti e la situazione in casa risulta molto pesante: è perciò molto probabile che i due figli abbiano cercato svago e amore altrove. I detective si rivolgono quindi alla scuola frequentata dai bambini ed è qui che Hays conosce e si innamora della donna che poi diventerà sua moglie, la maestra di lettere Amelia Reardon (Carmen Ejogo), la quale, come veniamo a sapere, nel 2015 sarà morta. La donna lo informa del fatto che alcuni ragazzi spesso tormentano i più piccoli, perciò Hays e il collega ne interrogano due (uno di loro, tra l’altro, è interpretato da Brandon Flynn, ossia Justin in Thirteen Reasons Why) che avevano visto i bambini prima che questi ultimi sparissero. I ragazzi si mostrano subito evasivi e sospetti, ma per il momento non costituiscono una pista concreta. Al contrario, il primo sospettato è un veterano del Vietnam indiano, solito a raccogliere e rivendere spazzatura per vivere. Questo personaggio, che per ora al pubblico non sembra un possibile colpevole perché troppo scontato, incarna due importanti temi affrontati dalla serie: la guerra e il razzismo. Il Vietnam viene spesso ricordato da Hays, il quale era solito compiere perlustrazioni e che per questo è divenuto particolarmente abile a cercare tracce. La guerra è costante nei suoi ricordi, una sorta di spartiacque tra due vite racchiuse in un solo essere umano. Anche la questione etnica è centrale. L’indiano è subito additato dagli abitanti del Paese e anche Hays, afroamericano, nota spesso che i suoi colleghi tendono ad ascoltare con più attenzione il collega e amico bianco Roland. La cosa ferisce il protagonista, ma l’uomo è troppo orgoglioso per farsi abbattere da queste piccole grandi manifestazioni di razzismo e pregiudizio.
Alla fine dell’episodio, una svolta che non mi aspettavo: in una grotta, Hays trova il cadavere del bambino, con le mani giunte come si trattasse di un rito. Un’immagine forte, che chiude un’ottima e intrigante premiere.
Veniamo al secondo episodio, “Kiss Tomorrow Goodbye”. In questa puntata, i detective scoprono due nuovi sospettati: Dan, il cugino della madre dei bambini, e un pedofilo in libertà vigilata. Il primo è stato ospitato per un po’ di tempo dalla cugina, e i due trovano nella camera del bambino, in cui l’uomo dormiva, delle riviste di Playboy e un buco nell’armadio in cui si poteva scorgere la camera della bambina. Anche grazie alle testimonianze di alcuni parenti, si viene a sapere che la famiglia Purcell probabilmente nasconde più segreti di quel che può sembrare. Il secondo, invece, che poi si rileva una falsa pista, sembra quasi un pretesto per approfondire il legame tra i due detective. Dal modo in cui interagiscono tra loro (Hays è più pacato e riflessivo, mentre West è un uomo più semplice e pratico) non possono che ricordarci il rapporto tra Rust e Marty: una versione più edulcorata e meno conflittuale, possiamo dire. Persino i metodi violenti e poco ortodossi che utilizzano con quest’ultimo sospettato ci ricordano il duo della prima stagione. Intanto, nel 1990, Hays scopre che i suoi colleghi hanno rinvenuto le impronte della bambina scomparsa e mai ritrovata in un negozio in cui era avvenuta una rapina: la ragazza è quindi viva e questa svolta nelle indagini riapre nel detective nuove ferite. Senza contare che sua moglie sta proprio scrivendo un saggio su quel caso, tanto la tragica vicenda aveva scosso le loro vite. Insomma, si torna sempre allo stesso punto: la vita è un cerchio, gli eventi si ripetono e i ricordi tornano a tormentarci. L’episodio si conclude con un messaggio scritto con lettere di giornale incollate lasciato in casa Purcell: vi è scritto che la bambina è viva e che sta bene.
Infine, il terzo episodio, intitolato “The Big Never”. Si tratta di una puntata molto intimista, che scava più a fondo nella mente del nostro protagonista. Nel 1980, i detective scoprono che i due fratelli avevano mentito su dove si sarebbero recati quel pomeriggio. Il che porta Hays a setacciare ancora la loro casa e il bosco. Nelle loro camere, trova alcuni strani disegni e bigliettini, mentre nel bosco, vicino al luogo in cui aveva trovato il cadavere del bambino, alcuni dadi e giocattoli, oltre che del sangue su una roccia. E’ quindi presumibile che il bambino sia stato ucciso in quel luogo, per poi essere trasportato nella grotta. Il detective comprende inoltre che il bosco era per i due bambini un luogo di gioco: che si incontrassero con un adulto? Hays e West interrogano quindi il proprietario di quel terreno, che afferma di aver visto i bambini in compagnia di due adulti, uno bianco e uno nero, su una berlina marrone. Con un salto temporale, ci troviamo nel 2015, durante l’intervista di Hays: l’investigatrice afferma che all’epoca vi furono molti testimoni che dichiararono di aver visto una berlina marrone, ma che nessuno se ne occupò, accusando quindi Hays stesso e la polizia di gravi lacune nelle indagini. L’ex detective, stanco e sconvolto, in un momento di crisi vede la moglie Amelia in forma di fantasma. La sua “visita” è per lui un tormento e lo spettatore si rende conto che probabilmente il nostro protagonista non ci ha detto tutto. Forse gli è capitato qualcosa di tragico durante l’indagine? O è proprio lui ad aver compiuto una terribile azione che non ricorda? Non sarà forse uno di quei casi in cui il pubblico non può fidarsi del narratore? Il mistero si infittisce: mille teorie hanno già iniziato ad intasare il web e si spera di non rimanere delusi. Da segnalare in questo episodio una delle scene più agghiaccianti che abbia mai visto: sfogliando un album della famiglia Purcell, Hays vi scopre un’inquietante immagine. Si tratta della foto scattata al bambino il giorno della sua comunione, nella stessa identica posizione ed espressione di come il detective lo ha trovato senza vita nella grotta. Da brividi. Anche qui una domanda sorge spontanea: che ci sia un collegamento con la prima stagione? Il tema dell’infanzia, unita a strani riti e possibili episodi di pedofilia, potrebbe esserne la prova. C’è addirittura chi teorizza il ritorno di Rust Cohle: sarebbe davvero fantastico!
Come sempre il comparto tecnico è ben fatto, soprattutto la fotografia: sembra di essere lì, in quelle desolate foreste dell’Arkansas… Last but not least… da menzionare assolutamente l’ottima perfomance dell’attore Mahershala Ali. Si tratta di un interprete che personalmente ho conosciuto e apprezzato in House of Cards, quando ancora non era molto famoso. Due anni fa ha vinto l’Oscar come attore non protagonista per il film Moonlight e da quel momento la sua carriera è in ascesa. Ali qui ci offre un’interpretazione molto intensa, riuscendo a cogliere alla perfezione ogni mutevole sfumatura del suo personaggio nel corso degli anni.
Insomma, per quanto mi riguarda, questa terza stagione è iniziata col botto. Intrigante, realistica, emotiva…tutti gli ingredienti per un ottimo thriller.
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