Il genere western, a livello filmico e non, è stato negli ultimi tempi declinato in diversi modi. Magari, c’è chi è legato allo Spaghetti Western classico alla Sergio Leone, chi ancora al western-comedy dove si menavano le mani e…anche gli angeli mangiavano fagioli. Si è insediato in tutto questo Tarantino col suo Django Unchained, per poi arrivare anche alle serie con Westworld, distopicamente accattivante, e in ultimo Godless.
Ma cos’è nello specifico, Godless? Godless è una serie in 7 episodi prodotta da Netflix, con un cast di volti notissimi e di alto livello. Fin qui nulla di strano direte, peccato che almeno due dei personaggi principali siano assolutissimamente Britannici, e li vedrete recitare con un accento più sguaiato di John Wayne che vi porterà a dubitare di averli visti recitare in maniera più abbottonata.
Del resto, recentemente, si è visto come in varie occasioni, le capacità attoriali dei sudditi di sua maestà Bettina abbiano spesso messo in ombra i compari statunitensi, e sembra sia per una questione di preparazione alla base, fatta di accademie, studio matto e disperatissimo e Shakespearean Companies.
Godless non è un semplice western però, e non è neanche Westworld che strizza l’occhio a Game of Thrones. E’ un west-badass-female-drama.
Il West è presente nella sua poetica fatta di speroni, polveroni, sceriffi e paesaggi mozzafiato in campo lungo, tra canyon e secolari alberi muti, dove i volti degli indiani d’america incontrano i musi bianchi dalle loro case di legno e mattoni e i fumi delle miniere.
Il badass è un altra declinazione fondamentale del West, anzi diremmo più quella dei fuorilegge, dei banditi dai nomi a volte anche canzonatori, e che non mancano neppure qui, con le loro bizzarre abitudini ed il loro codice d’onore fatto di figliuoli acquisiti, di preghiere a dio e rivoltellate dalla velocità supersonica.
E la donna. Dov’è la donna in Godless? E’ solo nei saloon con il boa al collo, il corsetto stretto seduta vicino al suonatore folle di pianoforte? Oh no. Qui il destino inasprito delle balle di rovi che attraversano le città polverose le hanno rese ben più che passive portatrici di belletti. Una tragedia le porta ad assumere il comando, almeno in parte, della loro esistenza e della loro cittadina ‘La Belle’ – che nella sua femminilità accattivante sembra quasi ricalcare il nome di un noto gruppo anni 70.
A La Belle le belle hanno i loro ruoli, che sono sia quelli di chi porta i pantaloni in casa (alcune meglio di altre) e di chi sa’ impugnare pistole e cervello e difendersi da se.
Gli uomini dunque sono relegati ad un ruolo marginale? Oh no, gli uomini sono il contrappeso, l’altro lato dell’universo e della bilancia, ma ci portano talvolta a renderci conto di come, se non fossero idealizzati da un ruolo di predominanza che l’epoca imponeva, o ritratti come eroi a cavallo, sarebbero in realtà solo donne coi pantaloni un po’ più larghi – ma anche loro, con le loro debolezze e la loro umanità.
E’ questo in Godless il drama, il grande tema che ci porta, come in una stampa su pergamena sbiadita, a riconoscere quei volti sulle locandine ‘Wanted Dead or Alive’ e a farci temere il terribile Griffin, così come a farci palpitare per l’incauto Roy Goode – il classico fascino del fuorilegge capitato per caso che tutte le donne fa sospirare con la tumultuosa vita fatta di solitudine e sfortune.
Per quanto quindi Godless sembri avere delle canoniche linee guida tipiche del Western, in realtà non è per nulla scontato. Il ritmo non è dei più incalzanti, ma è frutto di una poetica dilatata, che sottolinea le emozioni e le contraddizioni di un mondo che, per certi versi, rimane ancora affascinante e in grado di farci sognare. Diamo quindi agli inglesi il period-drama, e agli americani il loro West che sa’ di caffe nero, duelli e cappelli portati sugli occhi a ripararsi dal sole cocente.
Non posso non spendere due parole, come già preannunciato, su alcuni membri del cast. Michelle Dockery oramai padrona delle scene seriali, affezionata quasi al ruolo di madre sfortunata e con i suoi demoni da portarsi dietro, forse (e dico forse) una espiazione reale la sua del lutto che l’ha purtroppo colpita nella realtà fuori dalle scene. Fatto sta che ci riesce benissimo, ed è credibile anche nella sua fortezza-fragilità che alterna sullo schermo come una tartina burro e marmellata di arance, dapprima amara e poi più dolce alla fine.
Stesso discorso per Thomas Brodie-Sangster, che pur candidandosi a diventare the next Sean Bean, fa impressione come la sua faccina da bambinetto sia ormai sul corpo di un adulto spilungone, e nel suo essere così allampanato ma ancora in bilico scenografico su una post-adolescenza troppo lunga, è perfetto per il ruolo del giovane Whitey, ingenuo eroe.
Infine, Jeff Bridges, che da’ corpo a un villain dignitoso e pieno di dignità, non meramente spietato per il gusto di esserlo, ma con una misticità di fondo che riesce a renderlo non odiabile ma talvolta anche comprensibile, perché se è vero che il demonio è l’opposto del buon cristo, così deve esserci un antagonista in ogni cosa. E anche la fama mediatica deve essere portata avanti e accresciuta, che sia con la realtà e col proprio corpo e la propria esistenza che diventa quasi opera e vangelo della persona.
Ci sarebbe poi da dire fin troppo sullo Sceriffo, sottostimato da tutti, ma che riesce a dimostrarsi unico valido alleato delle donne in carica di labelle nonostante una difficoltà di base, così come sua sorella, antitetica e grintosa pioniera in ogni senso. Rischierei però di fare spoiler e di dir fin troppo, rovinandovi il gusto di immergervi nella visione di questo piccolo gioielletto da intenditori.
E allora, prima di prendere di nuovo la diligenza per tornare a casa e spronare i cavalli al galoppo, aspetto da voi qualche commento, e se volete lasciate un commento o un like anche sulla nostra pagina social.
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